La dott.ssa Maria Rosa Pomella tratta disturbi alimentari tra cui bulimia nel suo Studio a Genova.
Emilia è bulimica.
Pensa continuamente al cibo, pregusta i pasti dal mattino; poi si accorge di aver mangiato troppo e si libera col vomito.
L'implacabilità del sintomo scandisce le giornate.
Non c'è posto per altro, eppure Emilia ha un lavoro, una bella casa, un marito e due figli piccoli.
Eppure, emotivamente, sembra esserci solo la preoccupazione per il cibo: pensare al cibo, cucinarlo, divorarlo, espellerlo.
Quando si accorge di essere prigioniera di un'ossessione (bulimia), viene nel mio studio a Genova in analisi.
Emilia è graziosa, piccolina, ha un fisico snello.
Tutto il cibo ingurgitato non lascia traccia, dato che E. provvede ad espellerlo col vomito rituale.
È proprio questa "invisibilità" del sintomo che mi fa pensare e fa sì che mi concentri non sull'"avidità", ma piuttosto sull'"impossibilità
di trattenere".
Naturalmente, Emilia inorridisce: se non provvedesse a eliminare il cibo col vomito rituale, diventerebbe enorme.
Il vomito non è nemmeno provocato; ormai le viene spontaneo, segue puntualmente l'abbuffata e la fa sentire libera, pulita.
Da me si aspettava che le proibissi le orge alimentari, non che le dessi una sola regola: una volta che ha mangiato, deve trattenere il cibo, accettarlo dentro di sé.
Infatti, tutto mi sembra capovolto, nello stile di vita di Emilia: il cibo non sembra funzionale al riempimento, ma all'espulsione.
Il bulimico non mangia per "riempire un vuoto interno", come si dice comunemente, ma per sperimentare più volte l'ebbrezza del vuoto. Si nutre del vuoto.
Esaminiamo la vita di Emilia, il suo stile nei rapporti.
Nel lavoro è una professionista competente, fiera della sua competenza, ma evita i rapporti ravvicinati.
Col marito è una moglie sottomessa e devota, che si contenta di ammirarlo.
Quello che mi colpisce di più è la storia delle sue gravidanze.
E. ha due figli, di cui è contenta: ma non le bastano.
Prima, ha avuto due aborti spontanei: il suo corpo sembrava incapace di "trattenere".
Dopo la nascita del secondo figlio, ha avuto un aborto volontario e in seguito ha "accettato" che le legassero le tube.
Ma la storia non è finita.
L'ingordigia di figli fa sì che E. sogni un'altra gravidanza: impossibile, data la situazione.
Ma l'avidità e l'ostinazione di E. sono tali che riesce - non si sa come - a convincere ginecologo e marito a ottenere una fecondazione assistita:
le viene praticata una "Fivet".
Per fortuna, il tentativo non riesce.
Tutta questa storia incredibile mi è sembrata un gravissimo "agìto": Emilia ha 40 anni, due figli sani;
il tentativo di fecondazione doveva annullare magicamente una rinuncia definitiva (la legatura delle tube).
In perfetto stile bulimico, E. considera tutto reversibile.
C'è stata, invece, una dolorosa perdita.
Sembra davvero che s'insegua l'ebbrezza del vuoto: E. mangia per espellere, rimane incinta per abortire.
Sono preoccupata soprattutto perché E. non sembra curarsi troppo dei figli che ha; figli che manifestano qualche serio disagio, specialmente il maschietto,
poco inserito a scuola.
E. rimane convinta che vorrebbe esser madre di numerosi figli, senza considerare la tendenza all'aborto spontaneo, l'aborto volontario e la volontaria sterilizzazione:
è evidente la difficoltà a trattenere.
Rispetto ai figli "reali", non immaginari, si manifesta la stessa difficoltà a "trattenere":
E. non riesce a stare con loro, li affida a baby sitters, amiche, scuole speciali.
È sempre in fuga verso stimoli nuovi, che poi lascia cadere.
Ma nel suo universo, tutto dev' essere recuperabile e reversibile.
Dopo il tentativo di Fivet, attuato testardamente nonostante la perplessità dell'analista, E. non ammette la delusione:
non le sarà concessa una nuova Fivet, ma riprende la rincorsa verso riempimenti illusori, si ricomincia sempre, come niente fosse.
Una nuova casa, una nuova vacanza... Sempre nell'evitamento di rapporti troppo personali.
Però la disciplina del cibo comincia a tenere.
Per quanto incredula, E. ha accettato la regola: non espellere più. Non disprezzare il cibo.
Il cibo non è un riempitivo, va pensato con amore, preparato con amore, assaporato.
E. faceva mangiare i bambini da soli "per sbrigarsi",le rare volte in cui lei era in casa e non affidava i figli a qualcuno. Poi mangiava da sola "perché il marito rientrava tardi".
Ora E. accetta la nuova disciplina: mangiare sempre con qualcuno, condividere.
E siccome il cibo è una cosa importante, e non è un riempitivo, E. rinuncerà al cibo industriale, imparerà a cucinare,
s'iscriverà perfino a una scuola di cucina.
Così stringerà anche nuovi rapporti, incontrerà nuove amiche.
La difficoltà a fermarsi, a trattenere, a non fagocitare anche sul piano dei rapporti, viene cimentata duramente per Emilia, quando il secondo figlio, il maschio,
entra nell'adolescenza e manifesta seri problemi.
Il ragazzo tranquillo e un pò succube diventa un ribelle, si lascia affascinare dalla droga.
Emilia si sente in colpa, il tentativo di ricuperare un rapporto mai vissuto sembra fallimentare.
L'onnipotenza è miseramente fallita: E. vorrebbe tornare al cibo, al giochetto della reversibilità, ma non ci riesce più.
La ribellione del figlio dura a lungo: E. si riavvicina al marito su un piano di parità, per avere conforto, si aggrappa alle amiche,
lei così fiera della sua indipendenza.
Riguardo all'analisi E. ha provato a lungo a considerarla un gioco reversibile: nuova seduta, stessi sintomi, tutto può magicamente ricominciare.
Ha provato "espellere" l'analisi (il "vomito" della bulimia) interrompendo, ma poi è tornata nel mio studio di Genova, perché aveva imparato a riconoscere sentimenti nuovi, come il senso di mancanza,
non più camuffato da una falsa pienezza.
Aveva imparato l'importanza del legame.
Alla fine è riuscita ad accettare la conclusione dell'analisi in modo maturo: qualcosa davvero era stato assimilato, una capacità duratura di contenere e di essere contenuta.